The Walking Dead – Senza Darabont funziona ancora di Diego Castelli
Sospiro di sollievo per i fan degli zombie
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NON LEGGETE SE NON AVETE VISTO LA PUNTATA DEL 12 FEBBRAIO !
Oggi torniamo a parlare di zombie. Un po’ perché sono appena tornato dal Festival di Berlino e mi serviva una serie che non avesse avuto un episodio settimana scorsa (ne ho una pila da recuperare!) e un po’ perché il ritorno di The Walking Dead era particolarmente atteso, non senza una punta di apprensione.
Il motivo è che questa seconda parte di stagione doveva essere quella in cui più si sentiva la mancanza di Frank Darabont, creatore e produttore esecutivo (fino all’ultimo episodio di novembre), licenziato da AMC lo scorso luglio secondo modalità non ancora del tutto chiarite. L’ipotesi più accreditata vede Darabont e i vertici della rete in violento disaccordo sulla riduzione del budget, che l’autore temeva essere mortale per la sua creatura, anche se poi, come abbiamo avuto modo di approfondire, le pur statiche puntate di questo autunno sono state comunque una goduria.
A questo punto vale la pena rassicurarci subito: se anche Darabont non c’è più – al suo posto è arrivato Glen Mazzara – per ora la sua assenza non si percepisce affatto. Non solo l’episodio di questa settimana è all’altezza, ma anzi è ben superiore alle classiche puntate del “ritorno”, tipiche di molti telefilm che chiudono una stagione (o una prima metà di stagione) col botto, e poi tornano con un episodio moscio (tipo Fringe quest’anno).
Ebbene, Nebraska è un puntatone, che rientra perfettamente nel solco che abbiamo imparato ad apprezzare: quello di una serie che usa gli zombie quasi solo come pretesto, per raccontare invece i problemi di un gruppo di sopravvissuti costretti a fare i conti con una situazione completamente inaspettata.
Ci eravamo lasciati a novembre con la ricomparsa di Sophia, la bambina dispersa e a lungo cercata, malauguratamente ritrovata nel capanno del vecchio Hershel, ormai ridotta a una zombie-kid. Quel finale era stato potente e scioccante, ma non ne avevamo ancora visto le conseguenze. Conseguenze che invece sono la base di questo nuovo capitolo, che ci mostra cosa la perdita di Sophia significhi e possa significare in futuro per i nostri protagonisti.
Parliamo di un evento talmente pesante, per i vari personaggi, da rimettere in discussione buona parte delle verità caratteriali ormai acquisite. Se Shane stava diventando il cattivo della storia, ora lo vediamo capace di compassione vera per la madre della bimba morta. Se Hershel era l’anzianotto burbero ma portatore di una speranza quasi maniacale (tanto da dar da mangiare agli zombie in attesa di una cura), ora mostra di aver perso qualunque fiducia nel futuro. Se Rick era il buono sempre pronto a fare la cosa giusta, ora sembra pronto a prendere decisioni più spicce e meno ragionate, in una versione più buonista dell’interventismo di Shane.
Che poi intendiamoci, i pesi in gioco sono ancora gli stessi: sappiamo che Shane prima o poi creerà problemi e enormi, sappiamo che Rick rimane e rimarrà l’apirante cavaliere sul cavallo bianco, e anche che molte sfide attendono i nostri, esterne ma soprattutto interne.
Intanto, però, la zombietudine di Sophia ha scosso le fondamenta del gruppo, mettendo in discussione credenze e valori consolidati, che si rivelano poco più che ombre di un’umanità passata che ormai ha sempre meno significato.
Tra parentesi, sono stato particolarmente contento di vedere lo svenimento e successivo stato di shock di Beth. Finalmente qualcuno con una reazione “normale” di fronte a un pianeta convertito a Nonmortoland: le parte il cervello. No perché, se mia madre e mio padre diventano zombie e io o un vicino di casa siamo costretti ad aprirgli la testa con un piccone, l’elaborazione del lutto sarebbe quanto mai problemitica, non è che dopo due ore sono già in macchina con un fucile pronto a farmi strada attraverso una Brianza piena di cadaveri ambulanti.
Tutto sto sommovimento emotivo trova perfetta apoteosi nella scena finale del bar, che anzi andrebbe chiamata “scena del saloon” (seria candidata al primo posto nei serial moments del lunedì). Perché i richiami al western sono palesi, nella costruzione narrativa, nella resa visiva, nella colonna sonora. Nel saloon, Rick e Hershel parlano a lungo e tirano fuori una discreta dose di quelle conseguenze di cui si parlava prima, che riguardano soprattutto una perdita di fiducia dell’anziano veterinario, subito tamponata dal senso del dovere di Rick, quello sì incrollabile no-matter-what.
Ma nel bar succede anche una un’altra cosa importantissima, che ancora una volta mostra la capacità di questa serie di spingere al limite i propri personaggi, portando lo spettatore ad autoconsapevolezze che non immaginava.
Nel bar arrivano due “vivi”, due tizi ancora in salute che si stupiscono della presenza di altra gente normale e puntano subito a farsi aiutare, a farsi accogliere alla fattoria di Hershel, così sorprendentemente sicura. E subito dal divano pensiamo alle implicazioni di questo evento, all’arrivo di nuovi personaggi, al complicarsi di situazioni già abbastanza intricate.
E invece no.
Per settimane, Rick ha cercato di convincere Hershel ad aprire la sua casa alle persone provenienti dall’esterno. E quelle persone erano i suoi compagni, ma anche noi spettatori, che con Rick avevamo condiviso la ricerca di un porto sicuro. E più di una volta ci è passato per la mente il pensiero “brutto vecchiaccio egoista, dacci rifugio o ti gonfiamo come una zampogna”.
Ebbene, ora nuova gente chiede quello stesso rifugio, e Rick che fa? Le rifiuta, ovviamente, perché ora è nella stessa situazione di Hershel: ha un posto da proteggere.
Ovviamente gli sceneggiatori ce la fanno facile: i due avventori del bar non sono ragazzine amish con i fiorellini in testa, ma due tipacci dallo sguardo assai poco raccomandabile, che fanno pipì sul pavimento e dicono le parolacce. Ma il succo non cambia: dopo aver biasimato Hershel perché non accettava di darci una nuova casa, ora siamo diventati come lui, e vogliamo proteggere a tutti i costi la nostra gente e il nostro angolo di paradiso, e non solo dagli zombie. E’ un passaggio fondamentale, un altro passo verso la perdita della razionale carità in favore del bieco istinto di sopravvivenza. Andate via, maledetti parassiti, trovatevi la vostra fattoria perché questa è mia e solo mia e la difenderò coi denti, ringhiando con la bava alla bocca.
E’ un passaggio a cui siamo guidati senza quasi accorgercene, ma la cui consapevolezza ci colpisce fino a stordirci. Arrivando poi a una sparatoria in pieno stile old west che dimostra come a Rick stia crescendo un altro po’ di pelo sullo stomaco: va bene fare la cosa giusta, va bene essere buoni con tutti, ma quando prendi mazzate sui denti finisci col vedere le cose da una nuova prospettiva.
Prospettiva. Ecco il termine chiave. Darabont o no, The Walking Dead sembra ancora pienamente in grado di scavare a fondo nei suoi personaggi, sapendo che una situazione così al limite come quella in cui li ha messi lascia spazio a mille sfumature e cambiamenti e ripensamenti. Un materiale narrativo di enorme interesse, che merita di essere raccontato fino alle sue estreme conseguenze, qualunque esse siano.