Alcatraz – Nuovi commenti al primo episodio di La Redazione di Serial Minds
Poco da dire: JJ Abrams ha vinto ancora
Che poi sono due episodi, ma vabbé. Così il titolo è più Google-friendly. Si parla di Alcatraz, quella serie di cui abbiamo scritto per primi nel mondo (una cosa di cui ci vanteremo finché esisterà il mondo stesso, rassegnatevi) e che lunedì sera ha esordito su Fox con una premiere di due puntate. Di cosa parla Alcatraz? Della mitica prigione e di come, alla sua chiusura nel 1963, i prigionieri che vi erano rinchiusi non vennero trasferiti, ma sparirono di punto di in bianco. Oggi, quasi cinquant’anni dopo, iniziano a ricomparire qua e là e a fare danni. Al che una task force formata da una detective bionda, un nerd obeso e un distinto gentiluomo iniziano a indagare e a cercare di fermarli. Ovviamente, sotto c’è qualche macchinazione. Del resto, cosa non da poco, è la nuova serie di JJ Abrams, quello di Alias, Lost e Fringe.
Ooops, JJ did it Again (di Marco Villa)
Abrams ha vinto di nuovo, per la terza volta. E sarebbe percorso netto nella sua carriera se non fosse per quell’abominevole cagatella di Undercovers. Alcatraz è JJ Abrams allo stato puro: una serie che prende dai suoi prodotti precedenti e mischia gli elementi ottenendo una sorta di compendio del JJ pensiero. Alcatraz ha la task force di Alias, il mistero mistico di un luogo come Lost e la caratterizzazione da indagine di Fringe. Insomma, non aspettatevi nuovi mondi o prospettive mai viste prima. E’ quella roba lì, ma è fatta bene e con una perizia che ciao.
Il meccanismo di Alcatraz viene messo in mostra soprattutto nella seconda puntata, dopo un pilot affascinante ma non sconvolgente come quelli delle serie citate in precedenza. È il secondo episodio a dare la formula che, con ogni probabilità, vedremo ogni settimana: un carcerato torna al mondo, fa danni, la task force si mette in moto e affronta il caso. Semplice e lineare, con l’aggiunta di un elemento finale legato alla continuità orizzontale.
Un trucco già utilizzato più volte in Fringe e in fondo un grande classico del genere mystery. La differenza, in questo caso, la fa la qualità, perchè il colpo di scena “orizzontale” al termine del secondo episodio è il gancio che ti tira dentro con una facilità disarmante. E ti tiene lì, facendo guadagnare ad Alcatraz uno spettatore in più almeno per qualche settimana.
Qualche nota sui personaggi. La detective Rebecca Madsen è caratterizzata in modo classicissimo per una poliziotta (padre poliziotto, zero vita privata, trauma interiore), ma l’interpretazione e la fisicità di Sarah Jones le permettono di rifuggire dallo stereotipo puro. Bella poi la caratterizzazione del personaggio di Sam Neill, dotato di una vena sadica che potrebbe dare grandi soddisfazioni (si veda lo sparo a sangue freddo alla mano del cecchino Cobb). Per ora in ombra, invece, il personaggio di Jorge Garcia, che parte con un patrimonio di simpatia da parte del pubblico, ma che dovrà crescere e strutturarsi per non essere solo una mezza macchietta di contorno.
Aspetti secondari, ad ogni modo, che certo non emergono a caldo dopo la visione. In quel momento, dopo il finale della seconda puntata, resta solo la consapevolezza che JJ oh you son of a bitch Abrams ce l’ha fatta di nuovo.
Entusiasmi del presente e paura del futuro (di Diego Castelli)
Ho già parlato di Alcatraz nel suo complesso, e il Villa ha aggiunto cose pregnanti, quindi non mi voglio ripetere. In merito al secondo episodio, aggiungo solo un dettaglio che col primo, ovviamente, non era possibile notare appieno: abbiamo visto che i cattivi di puntata, catturati e rinchiusi nella “nuova Alcatraz”, non vengono banalmente lasciati a marcire e dimenticati, ma possono al contrario svolgere un’importante funzione di serbatoio di nuove informazioni e nuovi punti di vista. Tralasciando l’elemento più esplicito di questo meccanismo, e mi riferisco ai nuovi interrogatori di Sylvane, ho esultato quando abbiamo ri-visto lo stesso Sylvane arrabbiarsi con la moglie durate la visita (un momento del primo episodio), ma questa volta dalla prospettiva di Cobb. Come a dire che, con l’aumentare dei prigionieri recuperati, aumentano anche le possibilità di autocitazionismo, di proliferazione di rimandi interni, tutte cose che, al di là delle storie principali, sono uno dei “plus” che i fan di Abrams hanno imparato ad apprezzare ormai da anni.
Rimane un unico problema, in una serie il cui secondo episodio mi è parso pure superiore al primo: parlo di quella specie di ordine/suggerimento che si dice Abrams abbia ricevuto dalla rete, che vorrebbe un telefilm meno intricato e orizzontale, e quindi più fruibile anche da chi non ha visto tutti ma proprio tutti gli episodi precedenti. L’intenzione di Fox, chiaramente, è quella di non replicare l’andamento di Lost, diventato fenomeno culturale e di costume, ma che a conti fatti ha avuto ascolti di volta in volta calanti. Il grosso rischio, però, è quello di rinchiudere dentro una prigione troppo stretta (immagine banale parlando di Alcatraz, lo so), una serie che invece ha proprio nella storia orizzontale le sue maggiori possibilità di sviluppo, come sempre accade con i prodotti fighi di Abrams (perché poi c’era Undercovers…).
Dobbiamo quindi aspettare ancora un po’, per capire quanto e come gli autori sapranno gestire richieste aziendali che potrebbero cozzare con gli entusiasmi del pubblico più affezionato alle dinamiche da telefilm “complesso”.
Va anche detto, per concludere, che i primi due capitoli hanno mostrato una buona capacità di tenere insieme le due anime, e non bisogna nemmeno dimenticare gli ascolti: il doppio episodio di Alcatraz ha fatto registrare 10 milioni di spettatori, un dato non eccelso ma comunque solido, che sembra premiare la strada intrapresa dalla produzione. La partita, però, si gioca sulla tenuta, più che sul debutto.
Staremo a vedere…