Homeland – (Fighissimo) Finale di stagione di Diego Castelli
Chiusura col botto per una serie già imprescindibile
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ATTENZIONE SPOILEEEEEEEEEEEEEERRRRRRR!!!!!!!!!!!!!!!!!
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Allora, devo svelare un retroscena. Per problemi tecnici che non sto a spiegarvi, ieri il Villa ha snocciolato il pezzo sul finale di Boss in meno di trenta minuti. Visto quanto bene l’ha scritto, e considerato il pochissimo tempo impiegato, non posso fare a meno di subire una certa ansia da prestazione al momento di scrivere del finale di Homeland. A voi non fregherà niente, ma insomma, volevo rendervi partecipi…
L’ansia deriva anche dal fatto che, parlando di serie drammatiche, Homeland è stata la grande sorpresa della stagione, proprio insieme a Boss. Cosa che probabilmente sapete, visto che ormai vi stiamo triturando le balle da settimane.
A dirla proprio tutta, la serie di Starz ha incontrato qualche difficoltà con gli ascolti, mentre Homeland è riuscita a essere pienamente efficace anche in termini di share.
Il motivo di tale diversità va probabilmente cercato, al di là di considerazioni relative alla controprogrammazione, in una certa difficoltà di fondo di Boss, che trattando di politica ha avuto il suo bel daffare a coniugare il puro intrattenimento con la complessità richiesta a uno show di questo tipo. Obiettivo raggiunto, dal nostro punto di vista, ma ovviamente non tutto il pubblico l’ha pensata allo stesso modo.
Ma non divaghiamo. Il doppio finale di Homeland, potente, teso, da cardiopalma, ha reso ancor più chiaro, se mai ce ne fosse bisogno, perché siamo di fronte a un prodotto di altissimo valore.
In primo luogo, Homeland è bello da seguire. Ok, un commento un po’ banale. Ma è esattamente ciò che accade: il concept è semplice e d’impatto, la storia è complessa ma perfettamente fruibile fino all’ultimo episodio, la realizzazione tecnica è abbastanza classica ma impeccabile, le performance degli attori sono magistrali. Quest’ultimo è un punto da cui non si può prescindere: Damian Lewis, Claire Danes e Mandy Patinkin sono straordinari, e danno corpo a personaggi vivi e vibranti, di cui riusciamo a percepire quasi con mano lo spessore psicologico.
Spessore che, ovviamente, è dato da una scrittura solida e coerente, piena di ritmo e sapientemente oscillante tra momenti di riflessione, impennate di suspense, dettagli nascosti e sorprese da sbarrare gli occhi. E’ il secondo strato della serie, quello che va oltre le esplosioni, gli inseguimenti e qualche tetta al vento. Che dire, ad esempio, dell’episodio in cui Carrie racconta praticamente tutti i suoi segreti a Brody, spezzando un silenzioso patto con lo spettatore, che tutto si aspettava tranne che l’agente della CIA venisse allo scoperto in modo così plateale con il suo sospettato numero uno. Per non parlare dei minuti di poco successivi, quando eravamo ormai convinti che Brody non fosse un terrorista, salvo poi vederlo confabulare proprio con i cattivi. Anche se il colpo migliore sta probabilmente nella puntata finale. Ormai sappiamo che il rosso protagonista è effettivamente un terrorista, l’abbiamo visto mentre si convertiva alla causa di Abu Nazir, e l’abbiamo visto indossare il giubbotto esplosivo. Ma è solo quando lo vediamo effettivamente premere il pulsante di attivazione (che poi non funziona) che ci rendiamo conto che non si è scherzato, che non hanno giocato con la nostra credulità per poi far finire tutto a tarallucci e vino. E’ vero, Brody ci ripensa quando sente la figlia al telefono, ma prima di quel momento il pulsante l’aveva premuto eccome.
Arriviamo così al terzo strato, quello che va ancora più in profondità rispetto alla semplice orchestrazione degli eventi, al loro ritmo e alla loro concatenazione. A questo strato ci accorgiamo che buona parte della tensione della serie risiede nella sua capacità di suggerirci sentimenti costrastanti verso i suoi personaggi. Carrie finisce con l’essere la matta, nel senso clinico del termine, ma al tempo stesso è quella che aveva capito tutto prima degli altri. Saul, che trasmette una precisa sensazione di composta saggezza, abnegazione e spirito di sacrificio, è anche quello che non capisce un cazzo di quello che succede, e che ci fa mangiare le unghie al pensiero di “ma cacchiarola, sei così sveglio e in gamba e dobbiamo affidarci alla malata di mente per sventare gli attentati?”. E poi ovviamente c’è Brody, il protagonista, che per un po’ ci ha lasciato nel dubbio, poi ci ha dato delle certezze (è effettivamente un terrorista), e infine ci ha fatto ricadere nel sospetto, perché nonostante l’amore per la sua famiglia, che alla fine gli ha impedito di far scoppiare la bomba, sembra apparentemente tornato nelle fila dei cattivi.
Ma poi saranno davvero “cattivi”? E qui siamo al quarto e definitivo strato. Lo strato perfettamente esemplificato dal messaggio che Brody registra prima di partire per la sua missione suicida. Un messaggio chiaro, limpido, posizionato a inizio episodio con una lunga scena a inquadratura fissa, in cui Brody afferma di amare il suo Paese e la sua famiglia, e che proprio in virtù di questo amore ha deciso di compiere un gesto che molti vedranno come malvagio, ma che invece lui vede come necessario a ripulire gli Stati Uniti da alcune personalità che infangano la bandiera. Durante questa scena crediamo pienamente a Brody e alla sua buona fede. Quando poi abbiamo conferma che il vicepresidente è effettivamente un bastardo, non possiamo fare altro che domandarci dove stia davvero il bene e dove il male.
E’ qui, in queste sfumature di grigio che rendono impossibile distinguere il bianco dal nero, che Homeland risponde a una domanda che mi ero posto fin dalla prima puntata. Com’è che questa serie piace così tanto, pur sembrando così inattuale?
La risposta è che Homeland inattuale non lo è affatto.
La minaccia del terrorismo e la caccia agli attentatori sono temi da post-11 settembre, gli stessi temi che hanno permesso la nascita e la prosperità di un’altro grande telefilm, 24.
In realtà, a ben guardare ci si accorge di una sostanziale differenza. Anche in 24 Jack Bauer dava la caccia ai malvagi, trovandoli assai spesso all’interno degli Stati Uniti, fino al Presidente stesso. Ma su di lui non abbiamo mai avuto alcun dubbio. In otto stagioni, il patriottismo incrollabile di Bauer era l’unico punto fermo, il perno attorno al quale girava tutto. Potevano essere tutti fetenti mentitori, ma non Jack Bauer.
In questo senso, Homeland rappresenta l’evoluzione di 24, il gradino successivo. I temi sono simili, gli sviluppi anche. Ma qui è proprio il protagonista quello di cui non ci possiamo fidare. E’ Brody la prima mattonella di un pavimento pericolosamente instabile, che non lascia allo spettatore alcuna sicurezza. Il problema non è tanto che il male è penetrato nelle nostre difese, rendendoci più difficile combatterlo: è che proprio non riusciamo più a distinguerlo, perché temiamo che ciò che credevamo giusto fino a ieri in realtà sia tutto il contrario.
E come si può rendere al meglio questa idea, se non costruendo un episodio che ci impone di sperare che il terrorista abbia successo? Perché questo succede: la scrittura, la regia e il montaggio ci portano a desiderare ala strage, palpitiamo nell’attesa che il telefilm imploda. Ovviamente, questo non succede, ma l’effetto sui nostri occhi e sul nostro cervello rimane lo stesso.
E dopo tutto questo, dopo averci tenuto col fiato sospeso e averci fatto riflettere come solo i grandi racconti sanno fare, ecco che la puntata si chiude con l’ultima genialata: Carrie, decisa a sottoporsi all’elettroshock per sanare un problema che noi sappiamo non avere, si rende conto di essere nel giusto solo quando l’anestesia sta facendo effetto, e le sue ultime parole – parole sagge e vere e importanti – vengono lette come l’innocuo delirio di una paziente problematica e sotto sedativi.
E’ la beffa finale, la scarica elettrica che ripoterà il dubbio e l’incertezza nell’unico punto in cui, per pochi secondi, sembrava possibile distinguere il bianco dal nero.
E gli autori, molto più concretamente, si sono garantiti materiale per altre storie appassionanti.
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Standing ovation e appuntamento al prossimo anno.