Serial Lover – Le fotografie seriali di Emilio Tini di Andrea Palla
Quando le serie tv incontrano la fotografia di moda!
Tempo di fashion su Serial Minds!
Il fotografo Emilio Tini ha presentato questo mese su GQ (la rivista che parla di tette e motori) un servizio intitolato Serial Lover: una serie di scatti dedicati alle più famose serie televisive attualmente in onda, declinati secondo i canoni della moda. Modelli e modelle vengono vestiti come i personaggi dei telefilm, ricreando, attraverso i capi e gli sfondi, le atmosfere tipiche dei prodotti a cui si ispirano.
Abbiamo pensato di riproporvi le foto di Tini, accompagnandole da un paio di righe rappresentative delle serie, riprese naturalmente dalle nostre vecchie recensioni.
(Fonte delle immagini: GQ Italia)
True Blood: «True Blood, se non si fosse capito, è un mezzo capolavoro: potente, sboccato, coraggioso e violentissimo. Non sarebbe la stessa cosa se mancasse anche uno solo dei molti elementi che abbiamo citato – compreso, tanto per fare un esempio, il caricatissimo accento del sud che tutti gli attori sono costretti a riprodurre – che insieme formano un mosaico estremamente suggestivo. Persino le scene più spinte ed esplicite, che ovviamente servono ad attirare in egual misura curiosità e critiche, rientrano a buon titolo in un progetto che, provocatoriamente, vuole mostrare il “true blood”: non una bevanda per vampiri (che è solo un pretesto), quanto il “vero sangue” che ci si dovrebbe aspettare da un mondo popolato da novelli Dracula. Niente adolescenti ingellati e cheerleader ingenue: qui ci sono arti mozzati, ettolitri di sangue, orge e riti voodoo. I vampiri di True Blood, quando mordono qualcuno, non si preoccupano di sporcare di rosso il cuscino. Anzi, in quel sangue si rotolano e scopano come ricci.»
Mad men: «È evidente che la serie fa della superficie, dell’esteriorità, un aspetto chiave per restituirci le atmosfere di un’epoca: l’odore delle Lucky Strike sempre accese, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri, il ticchettio delle macchine da scrivere delle segretarie. Ma non si tratta solo di un’operazione nostalgia, e lo dimostra la cura estrema nello sviluppo del plot e dei personaggi. Si tratta dell’aspetto più innovativo della serie, e di quello meno evidenziato. Sarebbe facile, in prima battuta, identificare ciascun personaggio con uno stereotipo e intuirne in qualche modo gli sviluppi. Don Draper è il donnaiolo di successo, Betty la casalinga devota e nevrotica, Peggy la segretaria bruttina e un po’ sfigata, Joan quella sexy.
Dopo aver in qualche modo incoraggiato questa lettura, si inizia però man mano a dare profondità, a sfaccettare i personaggi e a smentire le attese e le ipotesi degli spettatori su di loro. E lo si fa, udite udite, senza i grandi picchi di emotività o gli spiegoni di troppe serie drammatiche. Avete presente quello che si insegna in qualunque corso di sceneggiatura for dummies: “non dite le cose, fatele vedere”? Ecco, in Mad Men ci riescono.»
Glee: «Glee mostra effettivamente un’accozzaglia di sfigatelli grassocci, effemminati o balbuzienti, che gettano le loro speranze di riscatto nel Glee Club, presi subito di mira da giocatori di football e cheerleader. Storia di crescita, di abbattimento dei pregiudizi, di emarginati che cercano un modo per diventare qualcuno. Ma c’è di più. Grazie a Dio. Perché se fosse solo quello, sarebbe la solita solfa. Ryan Murphy ha invece capito che la semplice inserzione del musical nel teen drama non poteva essere sufficiente e nemmeno così innovativa.
E allora ecco arrivare l’ingrediente magico: l’ironia!
Potrà sembrare secondario, nel tripudio di note e di premi, ma l’ironia di Glee è componente fondamentale dei suoi successi. Se non ci fosse, Rachel non sarebbe così irritante, Finn così imbecille, Kurt così checca, Sue Sylvester così meravigliosamente stronza. Dal primo minuto della serie, tutto ciò che potrebbe essere troppo zuccheroso o troppo facilmente retorico, viene stemperato da una battuta, un’immagine, un retroscena che riporta tutto a terra. Questo non vuol dire eliminare il pathos. Vuol dire avvicinarlo alla consapevolezza (a volte chiarissima) che stiamo vedendo una serie tv, e che quindi non c’è bisogno di metterla giù troppo dura.»
Dottor House: «Se House fosse solo “umano”, saremmo in un drama e non ce ne fregherebbe niente. Se fosse solo un supergenio, sarebbe forse divertente, ma non ci prenderebbe lo stomaco. L’unione delle due componenti fa la magia, creando una figura dai tratti mitici, ma al contempo profondamente vicina al nostro vissuto. Chi di noi, in fondo, non ha mai creduto di essere forte e superiore, salvo poi scontrarsi con un’interiorità oscura e difficile?
Certo, il nostro diagnosta è un’esagerazione, un’iperbole, ma ritroviamo in lui tutte le capacità e i difetti che noi, in quanto persone, possediamo o crediamo di possedere: il pensiero razionale, l’ironia, la capacità di astrazione e di comprensione delle menti altrui, la sostanziale impossibilità di avere una pieno controllo sui nostri sentimenti. In questo senso, praticamente non esistono idee che non possano essere applicate a una serie come questa.»
Dexter: «Perché con l’amico Dexter all’inizio andavo d’amore e d’accordo. Le prime due stagioni divorate, nonostante fossero i primi tempi con i sottotitoli e usassi programmi assurdi che andavano fuori sync a ogni stacco. Ma andava bene lo stesso, perché quello stesso stacco ti lasciava con la voglia di scoprire cosa sarebbe venuto dopo. Le cose sono iniziate a cambiare nella terza stagione. La pesantezza di Miguel Prado era notevole e sommata a quella di Rita diventava pressoché letale. Un fascista represso e una cagacazzi olimpionica. Pessimo doppio.
Archiviato Prado, arriva Trinity. Salto enorme, personaggio grandissimo. Eppure arrivare in fondo a quelle 12 puntate è stata comunque una fatica. Poi, alla fine, la sorpresa. Il regalo. Pensavo fosse tutto risolto, credevo di essere pronto per ripartire. Invece ogni settimana vedo la pubblicazione del torrent e niente. Lo lascio lì, neanche me ne impossesso. Perché l’odio per Rita era motivato e sacrosanto, ma forse una parte era destinata al buon Dexter Morgan.
Non che si sia rammollito, per carità, l’evoluzione è fisiologica. Però io adesso avrei voglia di vederlo ammazzare senza pietà come agli esordi: dei suoi problemi per la sovrapposizione di delitti e serate libere della baby sitter mi interessa quanto del conflitto interiore di Meredith Grey (ci arriviamo). Gli autori hanno tentato una mossa non facile: creare il serial killer perfetto, con la doppia vita più insospettabile della storia e il modus operandi più astuto, per poi calarlo in situazioni da uomo di tutti i giorni. Purtroppo, però, con il passare delle stagioni sono andati sempre più in questa direzione, lasciando sullo sfondo la sua attività criminale. Non è un caso che lo stesso Trinity, probabilmente il miglior antagonista di tutta la serie, si sia rivelato importante non tanto per il numero abnorme di vittime, quanto per il suo essere modello e specchio dello stesso Dexter.
Così, al termine della quarta stagione, mi sono ritrovato davanti un protagonista che non era più se stesso, la prospettiva di avere dodici puntate giocate sui suoi sensi di colpa e come unica pista narrativa di peso la possibilità che Debra scopra la storia tra suo padre e la madre di Dexter. Un po’ pochino, no?»