Lost di Diego Castelli
Semplicemente…
Un paio di mesi or sono feci una promessa. Che il 22 settembre, anniversario della partenza del volo Oceanic 815, avrei scritto un articolo su Lost. Un articolo serio, poche cazzate. Il primo, e forse ultimo, interamente dedicato da questo blog alla serie più importante degli anni Duemila.
Ebbene, eccomi qua, nonostante la tempesta di nuovi telefilm che preme fuori dalla finestra, la miriade di show ancora vivi e vegeti che chiedono spazio, la pletora di stelle e stelline che vorrebbero ricevere attenzione, un anno e quattro mesi dopo la scomparsa dei naufraghi dallo schermo.
E invece no, parliamo di Lost. Non sperate che io sappia rispondere alle domande più segrete che albergano nel vostro cuoricino. Non so dirvi il perché e il per come di tutti gli anfratti tecno-fanta-mistici. Senza contare che, malgrado mi vanti di essere uno che se ne intende, quando non c’è il previously in testa agli episodi mi rannicchio in posizione fetale e piango sommessamente, in attesa che qualcuno mi spieghi cosa è successo solo una settimana prima.
Né posso sperare di racchiudere in poche righe quello che Lost è stato per i suoi fan. Finirei sicuramente per scontentare qualcuno, se non tutti.
Allora, con una paraculaggine da antologia, dirò che queste parole sono dirette a chi Lost non l’ha visto, se non in brevi spezzoni, in esilaranti parodie internettiane, in servizi giornalistici. Queste parole sono per i non vedenti, i non credenti, i babbani telefilmici che hanno sentito parlare della magia, l’hanno persino sfiorata, ma non hanno avuto occasione di afferrarla.
Nella mente di questi uomini e donne è sempre albergata una domanda, un quesito basilare eppure decisivo, da rivolgere a chi attendeva con occhio sognante l’apertura di una botola nell’erba, lo spuntare di un nuovo Altro, la rivelazione del piccoletto occhialuto di turno:
“Cosa cazzo ci trovate in sta roba complicatissima e totalmente irrealistica?”
Rispondere a questa domanda potrebbe prenderci tre giorni, due tesi di laurea, un libro. Ma forse, in cuor suo, ogni fan di Lost sa che la risposta è una sola, l’unica che conta davvero quando di parla del raccontare storie. La risposta, facile facile, è che non avevamo mai visto nulla di simile.
Tutto ciò che prima di Lost avevamo considerato fonte di “addiction”, di dipendenza, diventò semplice passatempo.
Vediamo se le mie umili parole riescono a farvi capire perché ci trovavamo in quello stato.
Fu il frutto di una strana alchimia, di un modo diverso di lavorare a uno show televisivo, di cui forse nemmeno gli stessi autori si rendevano pienamente conto, e che a suo modo è del tutto irripetibile. Lost, che nasceva innanzitutto come una serie di alto profilo, con un budget elevato, un cast di ottimi attori (anche se non necessariamente famosi), un creatore/produttore giovane e ambizioso, era pensata fin da subito per essere un evento, ma pochi alla vigilia avrebbero scommesso sul fatto che sarebbe diventata una mezza religione.
Se devo trovare una chiave di tutto – pur consapevole che nel successo di un telefilm concorrono una tale quantità di elementi, che cercare di isolarne uno solo può risultare tanto inutile quanto arrogante – credo di poterla identificare nell'”accumulo”. Lost non è la prima serie mistery della storia. Non ha inventato i flashback. Né le sottotrame romantiche. Non ha inventato il cast corale, la buona regia, le ottime interpretazioni. Quello che ha fatto, più di ogni altro nell’ormai lunga storia della serialità televisiva, è lasciarsi andare all’accumulo, alla moltiplicazione, pienamente consapevole di rischiare il caos.
Fin dall’inizio, Lost ci ha sommerso con una tale quantità di indizi, misteri, suggestioni, riferimenti extratelefilmici, rimandi interni e invenzioni, che il nostro cervello faticava a processarli tutti, finendo con l’abbandonarvisi come in una sorta di inebriante cacofonia.
L’inizio della serie sembrava avere una struttura abbastanza rigida, ma era comunque un bombardamento continuo di informazioni inaspettate e sorprendenti. L’obiettivo degli autori era stupire, no matter what, spezzare ogni resistenza razionale dello spettatore, penetrare nel suo cervello impregnandolo di domande pressanti, paure inconscie, desideri inesprimibili. In questo, Lost stimolava risposte manichee: o lo amavi o lo odiavi. Chi è riuscito a lasciarsi andare, entrando nel folle meccanismo, è rimasto invischiato per sempre, e ora guarda al passato con autentica nostalgia, come un alcolista pentito di aver imboccato la via della sobrietà. Chi invece aveva cominciato fin da subito a dubitare, a vivere con disagio il miscuglio di mistero scientifico e fantasy sussurrato, è stato rimbalzato fuori, espulso da un sistema che ammetteva solo credenti fedeli e pronti a tutto.
L’accumulo è stato croce e delizia, per Lost. Quello che apparve evidente, specie ai critici della serie, era una sorta di ribellione del telefilm. A un certo punto, la macchina narrativa era diventata così complessa e ardita che gli autori cominciavano a perderne il controllo, forse deboli e inesperti di fronte alla creatura maestosa che pure avevano modellato. Moderni Frankenstein, capaci di creare un capolavoro vivente dai pezzi dismessi di altri corpi, ma poi parzialmente inadeguati a controllare quella stessa meraviglia, che iniziò a pensare di testa sua, cercando da sola la propria strada. Da qui la strana sensazione, per lo spettatore, di vedere tanto ma non tutto, di aver perso delle verità fondamentali, che da qualche parte ci sono, ma che questi semplici uomini (sceneggiatori, registi, attori) non sono stati in grado di mostrarci.
E’ giusto dire che Lost, specie con l’ultima stagione, ha mostrato il fianco a critiche legittime, da parte dei suoi stessi sostenitori. Troppe volte, accanto a trovate straordinarie, si intravedevano sviluppi solo abbozzati, troppo grezzi, o semplicemente improvvisati. Eppure, ancora una volta, riuscivamo in ogni momento a percepire il “grandioso”, un ingrediente capace di grandi contraddizioni, ma che molte altre serie cercano per tutta la loro esistenza, senza trovarlo mai. Lost era questo, grandioso. Un organismo vivente e pulsante, ben superiore, nel tutto, alla somma delle sue parti.
Certe delusioni del finale, certi risvolti apparsi forzati, non riescono a cambiare il giudizio. La conclusione di Lost (intendendo con questo termine l’intera sesta stagione), ha suscitato reazioni molto contrastanti. Non perché “brutta”, ma perché incapace di soddisfare in pieno l’ormai cronica fame di notizie dei fan. La questione Bene-Male, Jacob-Smoke, le grotte di luce, i candidati alla successione, i nomi scritti sui soffitti di granito, sono tutti dettagli con una loro coerenza, pienamente accettabili in virtù di una componente mistico-religiosa che Lost ha sempre avuto. Ma niente avrebbe potuto placare una sete che la serie stessa aveva creato e alimentato per anni. Gli autori tenevano a stento il controllo, erano loro stessi “lost”, dispersi, e alla fine hanno cercato di imbrigliare il tutto come meglio hanno potuto. Hanno provato a costruire una metaforica zattera, per fuggire dalla loro Isola, ormai diventata una meravigliosa trappola. Ce l’hanno fatta, anche se ne sono usciti con qualche osso rotto e qualche cicatrice di troppo, ma è il prezzo da pagare per diventare degli eroi, come ormai sono riconosciuti i vari JJ Abrams e Damon Lindelof.
Le critiche, anche quando legittime, non tolgono nulla a ciò che abbiamo provato per più di un lustro. Le emozioni che Lost ci ha trasmesso non perdono il loro valore di fronte a questa o quella scelta non condivisa. Il finale della prima stagione, col rapimento di Walt e la comparsa degli Altri, dopo settimane in cui credevamo che Jack e compagni fossero soli, rimane il mio finale di stagione preferito. Tra tutti i telefilm che ho mai visto. Che volete che me ne freghi se poi ogni tanto sono andati in vacca?
In questo senso, Lost è irripetibile. La dirompente carica innovativa della serie riusciva a ripararla dai suoi stessi difetti. Chi ha cercato di replicare quella potenza (Flash Forward, The Event) ha fallito: perché il meccanismo dell’accumulo, spinto così all’eccesso, aveva senso solo se fatto da Lost, il capostipite. Lost ha creato un prima e un dopo. Gli altri sono stati meri imitatori, e come tali sono stati snobbati. Superare Lost sul suo terreno vorrebbe dire costruire una serie ugualmente articolata, ma al contempo del tutto coerente, dall’inizio alla fine, in ogni singolo dettaglio. Un’impresa probabilmente impossibile per normali esseri umani, e per le attuali abitudini produttive.
A Lost abbiamo lasciato carta bianca, consentendogli di creare come meglio credeva. Come ai fuoriclasse dello sport, gli abbiamo concesso di essere disordinato e arrogante e irritante, a patto che ci riempisse di emozioni. Non siamo pronti, ora, a concedere la stessa fiducia a qualcun altro, se non, in minima parte, ai soli padri del Progenitore (e così guardiamo Fringe e aspettiamo Alcatraz).
Per molti di noi esistono, o esisteranno, serie migliori di Lost. Ma su quell’isola ci abbiamo lasciato un pezzo di cuore e di cervello. E chi non è naufragato con noi, in quei sei anni, probabilmente non ci capirà mai del tutto.