The Killing – Finale di stagione di Diego Castelli
Ma l’ultimo episodio è un colpo di genio o un’irritante cagata?
SIGNORI, SI PARLA ESPLICITAMENTE DELL’ULTIMO EPISODIO: SE NON L’AVETE VISTO NON PROSEGUITE
Su internet c’è maretta intorno al finale di The Killing. L’ultimo episodio della serie di AMC ha acceso un feroce dibattito, in cui l’opinione prevalente sembra essere una: gli autori che hanno deciso di fare una serie alla Twin Peaks, senza però rivelare chiaramente il colpevole alla fine, meriterebbero il rogo (o punizione ugualmente dolorosa).
Personalmente, non sono d’accordo.
Dei pregi della serie aveva già parlato il Villa dopo il pilot. Un prodotto che rientra in quella specie di macrogenere della lentezza (Mad Men, Breaking Bad, The Walking Dead) che sembra andare tanto di moda negli ultimi anni, e che può anche stracciare irrimediabilmente la sacca scrotale, se non fosse che, nel caso specifico di The Killing, è usato nel modo giusto. Non si tratta di risparmio di scrittura, quanto di un mezzo per, in ordine sparso: alzare la tensione di una scena; creare quella pesantezza fastidiosa, ma necessaria a trasmettere l’atmosfera plumbea in cui si muovono i personaggi; dare spazio alle emozioni nascoste dietro sguardi apparentemente freddi, ma che diventano pieni di significato se inquadrati per quel mezzo secondo in più. E altro ancora.
La serie si è tutta sviluppata sulle direttrici suggerite nel pilot: un’indagine complessa, piena di ostacoli e pause, che però ha permesso di approfondire la psicologia degli ottimi personaggi, dalla seriosa Sarah Linden all’ex-drogato Stephen Holder (figlio di puttana, per inciso), passando per gli addoloratissimi genitori di Rosie. La componente prettamente poliziesca ha seguito una via più classica, con una serie di sospettati di volta in volta scagionati nei modi più diversi, a volte con conseguenze poco piacevoli (vedere il pestaggio del povero Bennet). E’ quella sorta di oscillazione del sospetto che porta i protagonisti (e lo spettatore con loro) a dubitare di tutto e tutti, considerando ogni possibile pista. La sensazione di spaesamento, a tratti di impotenza, è tipica di questo genere di racconti, che accrescono la suspense con la forza del segreto, fino all’esplosione finale, dopo la quale solitamente si possono dormire sonni tranquilli.
E qui arriva la scelta di una non-conclusione, che di classico ha ben poco. Nel penultimo episodio, gli autori hanno usato ogni strumento a loro disposizione (dialoghi, eventi, messa in scena) per darci un’informazione chiara e precisa: il colpevole è Richmond, uno di cui avevamo realmente cominciato a fidarci, e che si rivela un bastardo da competizione. Pensate a quando Linden lo scopre, vedendo che le mail inviate al misterioso Orpheus arrivavano al di lui pc: l’uomo che finora avevamo visto inquadrato di fronte, illuminato, con quella faccia buona e rugosa di uno saggio che ha sofferto e ha dei principi, ora ha la luce alle spalle, e del suo volto vediamo solo un’inquietante sagoma, mentre in sottofondo parte una musica angosciante. Cazzo, sei l’assassino, non ci si può sbagliare!
Se la cosa fosse andata davvero così, saremmo rimasti tutto sommato soddisfatti. Una moderata sorpresa (perché diciamolo, sarebbe stata moderata), un ultimo episodio dedicato a inchiodare il colpevole definitivamente, tarallucci e vino e a casa. Sarebbe stata una bella, forse ottima serie, ma più per le modalità di racconto che non per la storia di per sé. Evidentemente agli autori la cosa non andava troppo giù.
Da qui l’idea: la colpevolezza di Richmond rimane nel dubbio, la sua cattura è frutto di un inganno ordito da… Holder! Ma come Holder?! Ma non era l’ex tossico che riesce davvero a riabilitarsi grazie alla forza della volontà e alla fiducia della brava collega? E quindi chi ha ucciso Rosie? Chiiii?!?!?
Alla fine di The Killing lo spettatore è stordito. E probabilmente anche incazzato, perché ha seguito per settimane un’indagine che non approda a nulla di definitivo. Ma questa è una genialata, ragazzi miei. Perché nel 2011, in un racconto basato interamente sul “chi è stato”, puoi inventarti quasi tutto, ma se alla fine sveli il colpevole sarai rimasto nelle regole, avrai giocato pulito, e probabilmente una buona fetta di pubblico sgamatissimo avrà anche anticipato le tue mosse. In questo caso, invece, siamo spiazzati, perché The Killing tradisce le normali regole del genere investigativo (soprattutto in tv): non ci dice chi è il colpevole, e getta pure fango pesante su uno dei buoni. Ci si può incazzare finché si vuole, ma la scossa regalata da questo finale, e dalle modalità sorprendenti con cui è maurato, è di quelle che si vedono raramente in un crime nudo e crudo.
Per me questo è un bene, benché capisca perfettamente che molti spettatori possano rimanerne delusi.
Rimane da guardare alla Danimarca. Perché The Killing, per chi ancora non lo sapesse, è il remake di una serie danese dal nome impronunciabile (Forbrydelsen), con una protagonista simile con maglioni simili (Sarah Lund invece Sarah Linden), una vittima simile (Nanna Birk Larsen, diventata Rosie), e simili accadimenti, con però qualche differenza sostanziale: dura di più (20 episodi) e il colpevole alla fine si scopre (LO STO PER DIRE LO STO PER DIRE NON LEGGETE LE PROSSIME SETTE PAROLE SE NON VOLETE SAPERLO……………………….: in quella versione è l’assistente del padre).
L’idea del finale sospeso è dunque tutta americana, e a mio giudizio aggiunge qualcosa a un racconto altrimenti ben fatto, ma certamente più prevedibile. A questo punto, chissà cosa succederà in futuro: nella seconda stagione danese, Sarah Lund affrontava un caso tutto nuovo. La nostra Sarah Linden, invece, dovrà forse finire di occuparsi di Rosie, prima di passare ad altro, sempre che non decidano di dedicare alla ragazza annegata anche tutto il secondo ciclo (ipotesi che mi pare assai improbabile).
Sia ben chiaro: invece che applaudire, potreste sempre pensare che questo finale è il semplice frutto dell’ansia da cliffhanger, che porta gli autori americani a creare conclusioni sospese no matter what, per tenersi stretti gli spettatori.
Cazzo però, siete romantici come strisce pedonali…
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PS In attesa che mi diciate la vostra sull’argomento, aggiungo anche un’ultima riflessione: tempo fa lessi un articolo su internet in cui si sottolineava la scarsa necessità di rifare una serie che aveva avuto molto successo anche a livello internazionale, e che quindi meriterebbe la visione in originale.
Ecco, vi invito a vedere almeno un episodio di Forbryselden. Io l’ho fatto, e vi garantisco che in tema di tensione, messa in scena, fotografia, capacità recitativa, e creatività, se paragonato a The Killing sembra quella strana poltiglia che si vede a lato dei tergicristalli quando spazzolate via la merda di piccione dal parabrezza. E ha vinto anche dei premi, eh!