The Shield di Marco Villa
La serie crime che grazie a Dio con Montalbano ha in comune solo un protagonista pelato…
Un anno. Cosa resta dopo dodici mesi di una serie vista vorticosamente, ingoiando puntate su puntate ogni sera? Le trame sono ormai un ricordo, per non parlare dei singoli episodi. L’unico elemento che può fare la differenza tra una serie normale e una che merita è se in testa ti restano i personaggi. Se ti ricordi i loro nomi e i loro tic. Fateci caso. Di Lost ve ne ricordate tanti, giusto? E immagino vi ricordiate per esteso i nomi di tutti i protagonisti di Six Feet Under. Adesso pensate a qualcosa di scarso valore. Pensate magari a Greek o a Brothers and Sisters. Vuoto.
Io oggi voglio parlare di The Shield, perché a un anno dalla sua visione le figure di Vic Mackey, Dutch, Shane Vendrell e Claudette sono ancora forti e presenti nella testa. The Shield è stata una delle serie che negli ultimi anni ha meglio saputo coniugare forza dei protagonisti e potenza narrativa. La base è la più classica possibile: un commissariato di polizia in un quartiere disperato di Los Angeles. Lo sviluppo, invece, è del tutto particolare.
Fin dal primo episodio, infatti, Shawn Ryan ha deciso di rinunciare quasi del tutto alla chiusura verticale dei casi di giornata. Certo, alcune puntate autoconclusive ci sono, ma l’arco narrativo complessivo si estende sempre lungo una delle sette stagioni. Nonostante sia un crime, il cuore del telefilm non è l’indagine, ma il complesso rapporto tra verità e menzogna, onestà e doppiogiochismo. A sovrastare tutto questo è il personaggio di Vic Mackey, tra i più grandi della serialità anni zero. Una figura complicata, marcia fino al midollo eppure dotata di una sua morale. Messo tra i cattivi già nel primo episodio con un colpo di scena che tronca il fiato e lega alla serie, Mackey attraversa le sette stagioni con il passo della figura tragica, incapace di liberarsi da un destino sempre drammatico e condannato a trascinare con sé tutti quelli che incontra. Dal rapporto cameratesco e tremendo con i suoi compagni di squadra, sempre giocato sul filo sottile che separa onore, lealtà e minaccia, fino all’agghiacciante relazione con una moglie costretta a ricoprire il ruolo della vittima sacrificale. E ancora: lo scontro con il personaggio di Forrest Whitaker, che nella quarta stagione indaga su di lui nel tentativo di incastrarlo. La forza di Mackey è tale che lo stesso Whitaker finisce per subire uno sviluppo da personaggio tragico: partito moralizzatore, finisce più sporco del suo avversario.
Se una critica va avanzata a The Shield è quella di non aver mai cambiato prospettiva e argomento centrale. Per sette stagioni si parla di corruzione e poliziotti marci, per sette stagioni si assiste ai rischi presi da Mackey e soci e del rapporto che lega loro al resto del dipartimento. In questo elemento sta la distanza dalla parola capolavoro e – in particolare – da The Wire. The Wire è riuscito a raggiungere una categoria nuova per i crime perché ha fatto del continuo cambiamento la proprio cifra stilistica. The Shield si ferma un passo prima. Un passo importante e sostanziale, ma solo uno. Perché a suo confronto, tutti gli altri crime restano a loro volta un po’ indietro.