Marchlands – Quarant’anni di fantasmi in un solo telefilm di Marco Villa
Una casa infestata, un fantasma umidiccio, tanti rumorini
Ok, dai, siamo arrivati a giovedì e ancora non avevamo parlato delle solite inglesate. Pensavate di scamparla? E invece eccoci qua. O come direbbe l’uomo che ha procurato danni gravissimi e irreparabili alla cultura pop italiana, siamo ancora qua. Settimana scorsa vi abbiamo presentato un telefilm sui fantasmi francamente prescindibile, chiamato Bedlam e avente nel cast un inutile figlio di un talent. Oggi rimaniamo in ambito spettrale, ma per parlare di una delle cose più interessanti e di miglior realizzazione viste negli ultimi tempi.
Si chiama Marchlands ed è una miniserie in cinque episodi andata in onda a febbraio su ITV1. Quest’anno abbiamo parlato più volte dei network americani che suggono linfa vitale dalla televisione inglese sotto forma di remake. Marchlands ha invece fatto il percorso opposto: l’idea di base nasce infatti da The Oaks, una serie opzionata da Fox qualche anno fa, ma mai andata oltre il pilot. Gli scaltri britannici si sono allora fatti avanti e hanno deciso di inglesizzarla a modo loro e di trasformarla nel gioiellino quale è.
Ma di cosa parla Marchlands? È presto detto: di una casa infestata dal fantasma di una bambina annegata negli anni ’60. Nel corso della serie, però, non seguiamo semplicemente le peregrinazioni del povero ectoplasmino umidiccio, ma vediamo il suo impatto sulle vite di tre famiglie che abitano, a distanza di vent’anni l’una dall’altra (per essere precisi: 1968, 1987 e 2010), la casa in cui risiedeva la sventurata anima che non sa darsi pace. L’idea dello sguardo lungo il tempo è di per sé interessante, ma raggiunge livelli da applausi per come è realizzato: i tre racconti non sono separati, ma al contrario intrecciati in modo quasi indivisibile. Non assistiamo, infatti, a lunghe parti in cui si parla della famiglia degli anni ’60, per poi passare ad altrettanti lunghi passaggi di quelle dei decenni successivi. Marchlands si sviluppa attraverso una serie infinita di micro-scene della durata di pochi minuti (in alcuni casi pochi secondi), saltando in continuazione lungo l’arco temporale. Per dire: la protagonista del 2010 esce a fare una passeggiata e passa davanti a una fermata del bus; a quella stessa fermata del bus qualche istante dopo troviamo un personaggio del 1987 che sta tornando a casa; una volta arrivato a casa, troviamo in cucina la suocera stronza che vive nel 1968. Le cinque puntate sono tutte giocate su questo movimento: se stessi scrivendo una tesi, farei almeno una decina di pagine, ricche di aggettivi che precedono desueti sostantivi, sull’unità di luogo che deride l’unità di tempo e la mette in ridicolo su pubblica piazza, ma (per fortuna) il tempo delle seghe mentali accademiche è abbondantemente terminato.
Per impostazione e tono del racconto, Marchlands potrebbe tranquillamente essere una serie AMC tipo Rubicon, una di quelle in cui si decide in modo sistematico di ridurre al minimo il concetto di colpo di scena, per basare tutto il fascino del racconto su atmosfera e ambientazione. Più che da apparizioni negli specchi e patetici effetti speciali (ogni riferimento a Bedlam è puramente voluto), la tensione nello spettatore è provocata proprio dalla situazione di stasi, rotta solo da scricchiolii e rumori lievi. Uno stato di ansia giocato tutto sull’avanti e indietro nel tempo e su una regia eccezionale nel creare contrasti cromatici tra i personaggi e gli ambienti che li ospitano (come ad esempio accade con il cappotto blu elettrico della protagonista degli anni ’60, che fa a pugni con il verde della gioiuosa flora che circonda la casa).
Insomma, un horror che rinuncia agli espedienti più facili del genere, per puntare ogni cosa sulla narrazione. Più che una serie, un film lungo cinque ore, in cui tanti tasselli si sistemano al posto giusto solo dopo diverso tempo (personaggi dei decenni passati che ritornano con molti anni in più sulle spalle). Un progetto diverso, unico nel suo genere e di grande qualità. Se fossi un ufficio stampa direi “da non perdere”.