Call me Fitz di Diego Castelli
Il nuovo ritorno di Jason Priestley: il buon vecchio Brandon è solo un ricordo…
Il 13 gennaio scorso, su Sky Uno, è iniziata Call me Fitz, nuova serie con protagonista il mitico Jason Priestley.
Come “chi è”? Siete davvero così giovani?
Che diamine, è l’unico e solo Brandon Walsh di Beverly Hills 90210!
Ad ogni modo, il ruolo di Brandon è stato l’apice della carriera di Priestley. Un po’ come Cuore Matto per Little Tony, solo che, a differenza dell’Elvis di Tivoli, il nostro Jason non può andare nelle fiere di paese a interpretare il suo cavallo di battaglia: un adolescente con la testa sulle spalle e l’orologio sulla destra.
A dire il vero, dai tempi di Beverly Hills l’ex trapiantato del Minnesota ha fatto parecchie cose, sia davanti che dietro la macchina da presa. Certo, il fatto che non ve ne ricordate manco una (salvo, forse, le comparsate in Tru Calling), la dice lunga sulla modestia dei risultati.
Ora ci riprova, con un ruolo da protagonista in una serie canadese prodotta da E1, dove interpreta un personaggio che sembra l’esplicita antitesi del fu saggio Walsh: Richard Fitzpatrick (ma chiamatelo Fitz) è un venditore di auto usate, un uomo privo di scrupoli, manipolatore, sciupafemmine, alcolista e drogato, egocentrico fino ai calzini (volevo dire fino al buco del culo, ma sarebbe stato volgare), innamorato di sé stesso e soprattutto restio a qualunque partnership che non sia quella con una ragazza tonta e caruccia che gli titilla il pipino in autofficina.
Sì, avrei potuto mettere più punteggiatura nella frase precedente. Ma è venuta così, che ci volete fare…
Comunque, tutto gira alla grande per Fitz, finché un incidente in compagnia di una potenziale cliente non scatena uno strano fenomeno: la comparsa di Larry (Ernie Grunwald), spilungone tutto bontà e abnegazione, che sostiene di essere la coscienza di Fitz, arrivata per aiutarlo a ritrovare la retta via.
In un guizzo di creatività, questo elemento del concept rimane volutamente ambiguo. Quando vi ho detto che Larry afferma di essere la coscienza di Fitz, avete probabilmente immaginato due scenari alternativi, ma entrambi “classici”:
1. Larry non esiste, o se esiste è una sorta di entità soprannaturale che solo Fitz può vedere e sentire, con tutte le conseguenze comiche del caso.
2. Larry è un pazzo che, comportandosi in modo curioso e inaspettato, riesce a divertire noi e a insegnare qualcosa a Richard.
In realtà, la faccenda è più complicata. Larry è effettivamente un nuovo dipendente della concessionaria, con cui tutti interagiscono. Dunque è reale. Però conosce a menadito tutti i più piccoli dettagli della vita di Fitz, presenti e passati, proprio come se fosse un’entità celeste da film-buonista-di-Natale.
La serie si basa dunque su un bizzarro equivoco di fondo, che non viene spiegato nei primi due episodi – ho visto solo quelli per adesso, non statemi addosso… – e credo rimarrà indecidibile fino alla fine.
Come è facile immaginare, quest’idea è potenzialmente una lama a doppio taglio: se da un lato riesce a dare un tocco di originalità, dall’altro rischia di scontentare sia chi cerca un racconto grottesco ma ancorato al reale, sia chi predilige le storie dichiaramente “fantasy”.
L’appeal della serie, comunque, non si basa solo sul rapporto insieme conflittuale e salvifico tra Fitz e Larry (il primo vede il secondo come un fastidioso ficcanaso, ma non potrà fare a meno di essere favorevolmente influenzato dai suoi insegnamenti sfracella-maroni).
A dare colore al tutto, infatti, ci sono alcuni interessanti comprimari: Josh (Donovan Stinson), meccanico colto e capace, ma sempre strafatto; Meghan (Tracy Donovan), sorella acida e grezzona di Fitz; Sonya (Brooke Nevin), segretaria e fidanzata, mignottone dalla trombata facile che trova in Larry uno sprone a cambiare la propria vita verso una maggiore moralità; Ken (Peter MacNeill), padre di Fitz, anzianotto con un carattere di merda; i fratelli Ruptal (Husein Madhavji e Shaun Shetty), proprietari della concessionaria concorrente (due indiani stereotipati al punto giusto).
Il limite principale dello show, al di là dei rischi di cui si parlava prima, è una certa fragilità della scrittura. Accanto ad alcune trovate divertenti, specie quelle legate alla totale indifferenza di Fitz nei confronti del suo prossimo, ci sono passaggi decisamente meno ficcanti, più banalotti, se volete, come se la forza intrinseca dei personaggi e della situazione potesse bastare a interessare lo spettatore (così non è, tanto per la cronaca).
Per certi versi, Call me Fitz punta a essere un incrocio tra Californication e My Name is Earl: del primo ha il protagonista sregolato e donnaiolo e lo stile esplicito; del secondo prende le situazioni surreali e i tipi buffi. Il problema è che Fitz è un personaggio meno complesso e simpatico di Hank Moody, mentre al resto della ciurma gioverebbe, molto banalmente, un numero maggiore di buone battute.
Una nota davvero positiva è invece la colonna sonora, tutta giocata sullo swing e il jazz d’annata: anche in questo caso, l’apparente incoerenza tra suono e immagini crea una strana ma accattivante atmosfera, come se quello di Fitz fosse un mondo senza tempo, un palco buono per mettere in scena situazioni assurde piuttosto che la rappresentazione precisa di una ipotetica realtà.
Alla fine, dare un giudizio secco e definitivo è difficile: l’idea è potenzialmente efficace (sperando in uno sviluppo non troppo sdolcinato), il cast è buono e ci si diverte abbastanza spesso. D’altro canto, Call me Fitz non riesce a essere incisivo e memorabile come vorrebbe (o meglio, ogni volta che vorrebbe), e come altri show vagamente simili hanno fatto prima di lui.
Detto questo, proverò a dargli un po’ di fiducia. Poi oh, se non decolla come si deve lo mollo. Non è che son qui a far la carità seriale…
PS: Il discorso non finisce qui. Non mancate di farci visita domani, quando pubblicheremo un’intervista esclusivissima a Jason Priestley. E quando dico “esclusivissima” intendo proprio “inventata di sana pianta da noi, con rischi legali di una certa gravità”.
Non mancate!