26 Ottobre 2010 2 commenti

The Mentalist confession(s) di Diego Castelli

Ovvero: se Patrick Jane incontrasse la Franzoni piangerebbe per tre giorni.

I perché del mondo, On Air

L’altro giorno vedevo The Mentalist, e mi è saltato agli occhi un particolare che di solito passa in secondo piano. Sarà che in questi giorni siamo particolarmente attenti ai dettagli di crimini e delitti. (Per te, lettore del 2015 che giungi ora su questo vecchio post, sappi che siamo ancora soffocati dal caso di Sarah Scazzi, quella poverina che è stata ammazzata da… be’ non si è ancora capito chi…).

Che i telefilm americani siano poco realistici è serenamente accettato da tutti. Dubito che i licei statunitensi siano colmi di cantanti talentuosi come in Glee; non credo che tutte le bagnine californiane siano playmate come in Baywatch; e posso immaginare che nessuno scienziato abbia ancora imparato ad aprire varchi verso altri universi come in Fringe.

Le serie crime, per quanto si sforzino, non sono da meno. Anche qui si potrebbe fare qualche considerazione sulla qualità estetica di poliziotte e investigatori (ce ne fosse uno scorfano…), ma si potrebbe certamente andare nello specifico di metodi di indagine, raccolta delle prove, rapidità delle analisi.

Una cosa che però spesso non si considera sono le confessioni. Quando Patrick Jane si mette a investigare col suo sorrisetto sornione, trova sempre contraddizioni nei racconti dei sospettati, piccoli gesti rivelatori delle intenzioni truffaldine, prove nascoste che conducono alla scoperta del criminale di turno. Puntualmente, il suddetto sospettato (che è accusato di omicidio, non di appropriazione indebita di culatello) viene interrogato per una ventina di minuti e bam, confessa.
Ma come?!?!
In pratica, basta mettere il maramaldo di fronte al fatto compiuto perché lui confessi quasi immediatamente, come se fosse stato sconfitto a scacchi e fosse quindi ben disposto a riconoscere il valore dell’avversario.In sostanza, la necessità di chiudere la pratica in 40 minuti finisce col trasformare ogni caso in una partita di Cluedo.
“Ok, sono stato io, inutile negarlo dopo che hai fatto sfoggio di cotanta arguzia.”

Sì, le balle di fra Giulio.

Nella realtà i mascalzoni negano qualunque tipo di evidenza, anche quando vengono sorpresi con in mano la testa mozzata e sanguinante della tata ucraina.
Cioè, sono andati dalla Franzoni e le hanno detto “guarda, Anna Maria, ti abbiamo scoperto, perché abbiamo fatto due conti coi tempi di entrata e uscita dalla casa e ci siamo resi conto che gli unici colpevoli possibili erano due: tu e Flash. Ma Flash ha un alibi di ferro perché a quell’ora era a casa del figlio, Dawson“.
Fossimo stati in un episodio di The Mentalist, la Franzoni avrebbe fatto schioccare le dita e avrebbe detto: “Acc, siete stati proprio bravi, i miei complimenti.” Sappiamo tutti che non è andata così…

Ma la cosa ancora più bella è che, nella vita vera, anche quando le confessioni ci sono non bastano comunque! A parte che devono giungere spontaneamente, perché altrimenti i nostri investigatori brancolerebbero nel buio per decenni. Sarà che là hanno Grissom e Nick Stokes mentre noi abbiamo Lorenzo Flaherty e Ugo Dighero. Ma anche quando arrivano, non ci si capisce una cippa. Il contadinotto rincoglionito dice che è stato lui. Poi dice che è stata la figlia. La figlia dice di no, perché papà è cattivo. E ci sono le intercettazioni. E poi sarà stato il panettiere o l’idraulico. Mezzo paese sospettato. Vedrete che qualcuno tirerà fuori la CIA e a Bin Laden.

Nel mondo reale, Patrick Jane prenderebbe coscienza dell’impossibilità di chiudere anche un solo caso prima di tre-quattro anni. E probabilmente si suiciderebbe, per manifesta inutilità della sua vita (non è che faccia molto altro, pover’uomo…). Per carità, sarebbe un telefilm coraggioso, vincerebbe dei premi. Però insomma, forse è meglio Cluedo…



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