30 Rock di Diego Castelli
La serie che parla di tv che fa spettacolo sulla tv che… fa… Eh?
“Stimati capi di NBC, posso trasmettere una sit-com sul dietro le quinte della stessa NBC, e in cui faccio apparire tutti quelli che ci lavorano come dei pazzi furiosi?”
Mi piace pensare che sia questa la domanda che la vulcanica Tina Fey ha rivolto ai vertici della rete, quando ha proposto l’idea per 30 Rock. Forse lei l’ha messa giù meglio, oppure i capi di NBC erano alticci. Fatto sta che le hanno dato carta bianca per creare il telefilm più autoreferenziale che sia mai stato concepito.
Tina, autrice e protagonista della serie, era una colonna portante del Saturday Night Live, il leggendario sketch show. Un bel giorno ha deciso di produrre un telefilm vero e proprio, e siccome quello che conosceva e amava era il SNL, ha optato per una sit-com che raccontasse proprio la produzione di uno spettacolo comico. Nella pratica, questo è stato quasi un pretesto per dar vita a una pletora di personaggi assolutamente improbabili, evidente estremizzazione di molti stereotipi legati allo showbiz.
La Fey interpreta Elizabeth “Liz” Lemon, capa dello staff creativo del fantomatico TGS, ma soprattutto zitella cronica, goffa all’inverosimile, senza uno straccio di vita privata decente. Intorno a lei si muove un nutrito gruppo di malati di mente: Tracy, attore adorato dal pubblico ma grezzo e pigrissimo; Jenna, belloccia e talentuosa ma ipervanitosa e un po’ mignotta; Kenneth, stagista tuttofare, stakanovista e fedele come un labrador. E poi una serie di collaboratori più o meno importanti, dementi pure loro. Ma su tutti spicca lui, il boss supremo, Jack Donaghy, interpretato da un immenso Alec Baldwin. Elegante, seducente, finemente calcolatore, repubblicano de fero, capace di un’ironia tanto pacata quanto folgorante. Il rapporto tra lui e Liz – frizzante e totalmente platonico – è una delle cose migliori viste in tv negli ultimi anni.
Se un film parla di se stesso, cioè del cinema e dei suoi meccanismi, quasi sicuramente sarà simpatico ai critici. Stessa cosa per la tv, ed era quindi prevedibile che 30 Rock – dove si arriva a fare battute sul logo di rete, con l’attore che lo fissa, nell’angolo in basso – piacesse da matti ai professoroni. Il risultato sono 102 nomination e 43 premi vinti, su cui spiccano una lunga serie di Emmy Award, assegnati un po’ a tutti: attori, produttori, montatori, quello che vi pare.
Fortunatamente, l’amore degli intellettuali non è figlio di una mera pippa mentale. Sotto una sapiente patina di idiozia, 30 Rock nasconde un’idea geniale: costruire “dietro” la tv un mondo ancora più bizzarro di quello che ogni giorno vediamo “dentro” la tv.
Certo, è una comicità spesso sottile, raramente sguaiata. Soprattutto, è ricolma di riferimenti locali: il cinema, la televisione, la politica, la pop colture americana. Quindi non sempre noi “stranieri” riusciamo a cogliere tutti-ma-proprio-tutti i riferimenti (un esempio sono le guest star, che spesso riconosciamo, come Jennifer Aniston o Matt Damon, ma che in altri casi ci sono quasi sconosciute).
Eppure, a mio avviso, non ci si può non innamorare di questo microcosmo tubocatodizzato, anche solo per il suo essere “altro” rispetto a tutto il resto.
Insomma, non è sicuro che vi piaccia, ma se non avete visto nemmeno un episodio di 30 Rock non potete spacciarvi per veri serialminders. Almeno una puntata, ragazzi. Su, che vi fa bene…