Dawson's Creek: quando Katie Holmes non sapeva ancora di discendere dagli UFO di Andrea Palla
La serie culto che ha reso i giovani romantici sognatori di provincia
Me la ricordo ancora come se fosse ieri, quella domenica pomeriggio del lontano 1999 quando sull’ormai defunta Tele+ apparve per la prima volta il faccione lobotomizzato e bamboccione di Dawson Leery. Avevo preparato la giornata con la cura degna dei grandi eventi: silenzio assoluto, luci soffuse, ciotolone di popcorn; tanto mi aveva colpito la pubblicità gigioneggiante della guida programmi, che presentava questo nuovo serial come una moderna ed intelligente visione sui drammi più incomprensibili degli adolescenti, quale io stesso ero.
Non mi ci volle molto per capire che Dawson’s Creek aveva al suo interno una serie di dettagli sospesi tra il rivoluzionario ed il classico, tra l’affascinante e lo scassacoglioni, tra lo scanzonato e l’atrocemente pesante degno di un film russo d’inizio secolo scorso. Eppure, in quello che a poco a poco divenne il tòpos tipico di questo telefilm, e che ne decretò da un lato la fortuna e dall’altro l’odio da parte di coloro che vedevano in Dawson l’esempio più lampante del passaggio tra la fanciullezza e la geriatria, si possono ancora oggi ravvisare elementi di successo che innalzarono questa serie ad un livello solo sfiorato da altri prodotti di costume suoi simili.
Creata da Kevin Williamson, autore di celeberrimi teen horror tra cui Scream, il serial conteneva elementi personali dell’autore, rimodulazioni delle sue esperienze passate, riespressione dei suoi sogni andati. Ben lontana dai cliché tipici di altre serie adolescenziali di successo (citazione d’obbligo a Beverly Hills 90210), la caparbietà di Dawson’s Creek fu nel ricreare l’ambiente intimo e familiare di un’anonima cittadina di provincia americana, all’interno della quale far muovere un microcosmo estremamente ristretto di personaggi. Niente a che vedere con gli immensi spazi teatrali offerti dai suoi fratelli maggiori: in Dawson’s trionfavano gli umori prima che le storie, i sentimenti prima che gli intrecci narrativi.
Forte di una filosofia del tutto caratterizzante, secondo cui il dialogo non deve ricreare la verosimiglianza dell’adolescente medio quanto piuttosto l’ambizione di quello più determinato e sofisticato, il risultato fu costruire giovani con la mentalità di quarantenni in perenne crescita, offrendo non tanto uno spaccato sulla loro vita, quanto piuttosto sul loro *sogno* di vita.
Ma c’è di più, ed è la dimensione crossmediale del prodotto: Dawson’s fu il primo teen drama ad utilizzare a piene mani il mezzo interattivo per aumentare il bacino dei potenziali spettatori, declinando i suoi elementi attraverso più media. Sul sito ufficiale le avventure di Dawson e compagni non terminavano con la messa in onda, ma proseguivano in una sorta di primordiale blog redatto dai protagonisti stessi, con lo scopo di intrattenere gli spettatori anche durante le pause tra una stagione e l’altra, e aggiungendo nuovi dettagli ai rapporti creati tra i personaggi.
Viene da pensare che molto di quello che è venuto dopo, da Smallville a The O.C., da Everwood a Gilmore Girls, abbia avuto come antenata l’innovazione data da Dawson’s Creek, che in maniera discreta, a volte poco riconosciuta, ha creato un nuovo modo di fare telefilm per gli sbarbati. Quello che resta è una serie di transizione che seppe essere culto riprendendo gli elementi classici della fiction di frontiera degli anni ’70 (Lassie, La casa della prateria, ecc.), e aggiungendo a questi la curiosa fallibilità di personaggi sognatori, spesso incapaci di fuggire dalle proprie catene di filosofica immanenza: piccoli sfigati degli anni 2000, nei quali fu trapiantata la mente di asfissianti geni incompresi che reinterpretarono a loro modo l’adolescenza, rendendola realtà esistenziale, oggetto di ricerca universale.
Katie Holmes Cruise, complessata Joey Potter col cervello di una donna in carriera postmestruata, che tu possa riposare in pace.