24 Settembre 2024

Monsters: The Lyle and Erik Menendez Story – Botta eh di Diego Castelli

Il seguito ideale di Dahmer è un groviglio di malvagità, abuso, oscurità. E funziona, se ce la fate.

On Air, Pilot

All’inizio, a settembre 2022, arrivò la storia di Jeffrey Dahmer, in una miniserie creata per Netflix da Ryan Murphy e Ian Brennan, che raccontava la storia del famoso serial killer, interpretato per l’occasione dall’ottimo Evan Peters.

Quella miniserie ottenne recensioni anche molto divergenti, e sobillò polemiche a volte inaspettate (come quando Netflix inserì il bollino LGBT su una storia in cui il protagonista gay era pure un assassino, creando un abbinamento fra i due concetti che molti trovarono inopportuno).
Su una cosa però non c’era alcun dubbio: fu un grande successo di pubblico e ricevette diverse nomination agli Emmy, vincendono uno per l’interpretazione da non protagonista di Niecy Nash.

E cosa succede quando una miniserie creata da un autore-produttore come Ryan Murphy, che evidentemente non dorme mai, diventa un grande successo?
Semplice: si trasforma nella prima stagione di una serie antologica che, al secondo giro, racconta un’altra efferata storia di sangue, quella di Erik e Lyle Menendez.

La sera del 20 agosto 1989, i fratelli Menendez, figli di un emigrato cubano diventato ricco negli Stati Uniti, uccisero i genitori con diversi colpi di fucile a pompa, lasciandoli cadaveri sul divano di casa loro, di fronte alla tv che stavano guardando in una normale serata estiva nella lussuosa Beverly Hills.

La serie racconta l’omicidio, le indagini, la personalità dei protagonisti coinvolti (ovviamente i fratelli, interpretati da Cooper Koch e Nicholas Alexander Chavez, ma anche i genitori, che hanno i volti assai famosi di Javier Bardem e Chloë Sevigny), e poi il processo, la vita in carcere, i tentativi di difesa e di accusa, insomma tutta la storia di un omicidio che all’epoca fece molto scalpore e coinvolse l’opinione pubblica come pochi altri fino a quel momento.

Un omicidio che, per come è raccontato, sembra voler raccontare qualcosa in più, qualcosa che vada oltre la cronaca e la ricostruzione dei fatti, che non a caso appare un po’ più libera rispetto ad altri prodotti dello stesso tipo, perfino di quelli già creati da Murphy (e la mente corre alla prima stagione di American Crime Story, quella su O.J. Simpson).

Sebbene questa vicenda abbia ancora alcuni punti oscuri, che mai potranno essere chiariti veramente, su una cosa non c’è dubbio: Erik e Lyle hanno effettivamente ucciso i loro genitori a colpi di fucile.
Anche per questo, forse, la serie inizia proprio così, con l’omicidio, messo in scena con la crudezza e la violenza che già avevano scandalizzato gli spettatori più impessonabili di Dahmer.

Dopo quel momento sanguinario, però, la serie non diventa più leggera, se non esclusivamente in termini di violenza esibita. Subito dopo gli spari, nel raccontare il prima e il dopo dell’omicidio, ci immerge in un gorgo di abusi, morbosità, colpa, disagio psicologico, e pura e semplice malvagità, che non prevede momenti di pausa o di respiro.

Senza voler analizzare passo per passo, al netto del fatto che il concetto di spoiler è sempre relativo per la ricostruzione di storie vere, vale la pena discutere il cuore filosofico dell’operazione, che possiamo identificare in una costante e spietata sovrapposizione di vari strati di “Male”.

Se la prima scena, infatti, ci mostra tutta la brutalità dei fratelli contro i genitori, gli episodi successivi ci mostrano gli abusi e le violenze psicologiche perpetrare proprio dai genitori sui ragazzi, nel corso di anni e anni.
Il che significa che la serie sostiene l’innocenza di Erik e Lyle, o quanto meno la possibilità che il loro gesto fosse in qualche modo giustificato?

Non esattamente, perché la l’oscurità dei fratelli non appare solo lì, ma viene continuamente raccontata per tutta la stagione, arrivando a mettere addirittura in dubbio ciò che abbiamo visto poche scene prima, come se quelle immagini non fossero completamente credibili, anche se la serie ce le vende così.

Non solo. I “mostri” a cui fa riferimento il titolo più generale della serie, in questa seconda stagione possono essere trovati un po’ dappertutto, non solo nella famiglia Menendez: nello psichiatra che li segue e cerca di lucrare sul loro delitto; nella sua amante poco sana di mente, che viene manipolata dal medico e contemporaneamente cerca lei stessa di manipolare lui; nella principale avvocata che si occupa del caso dei Menendez, che è la classica figura che ha poco a cuore la verità e la giustizia, preferendo la vittoria e la carriera.

È importante sottolineare che ci sono aspetti di questa storia che la serie mette in scena con grande chiarezza e abbondanza di dettagli, anche se in realtà non sono affatto così certi e pacifici, in quanto essi stessi oggetto di una dialettica tribunalizia che non è mai riuscita a definirli in maniera precisa.

Il tema, però, è proprio che gli autori non sembrano interessati a prendere un parte definitiva, dividendo fra buoni e cattivi, né a fornire a chi guarda gli strumenti per stabilire esattamente dove stia la verità.
Piuttosto, l’intenzione è quella di ricostruire un mondo di ricchezza e sregolatezza, in cui il Male è pervasivo, perché figlio dell’ambizione, del denaro, della necessità di approvazione sociale. Perfino, forse, della semplice noia.

Più che il racconto di un fatto preciso, che comunque viene ricostruito in tutte le sue sfacettature, questa seconda stagione di Monsters sembra voler essere un affresco malato di una società che non funziona, e che i mostri, più che subirli, li produce.

Per fare tutto questo, la serie punta innanzitutto sul cast, in cui la fama di Bardem e Sevigny viene almeno in parte oscurata dagli ottimi interpreti dei fratelli Menendez, che mettono in scena due personaggi sempre al confine con la follia, costantemente tesi, allucinati, deformati dal loro stesso, enorme gesto (ovviamente ognuno con le sue sfumature e specificità).

Gli episodi, come detto, sono crudi e violenti, spesso inquietanti, ma trovano anche lo spazio per improvvisi tocchi di raffinatezza autoriale. Penso in particolar modo al quinto episodio, in cui il dialogo fra Erik e la sua avvocata viene raccontato con un’unica, lunghissima inquadratura di quasi 35 minuti, che con un movimento lentissimo ma progressivo avvicina lo sguardo al protagonista per entrare dentro la sua mente mentre lui, in una specie di lungo monologo di spessore realmente teatrale, racconta gli abissi della violenza e dell’abuso in cui si sente imbrigliato.

Nel complesso, una buona stagione. Forse meno impattante di quella su Dahmer (che, per dirne una, poteva contare su più di due omicidi), ma anche un po’ più varia come ritmo e come sapore.

Nell’ormai enorme galassia delle serie tv di Ryan Murphy, probabilmente la seconda stagione di Monsters non sarà ricordata come il prodotto migliore o più memorabile, ma ancora una volta dimostra che avere idee chiare, uno stile preciso, e una visione organica, conduce a prodotti solidi e godibili, pure quando ti lasciano con la voglia di chiuderti in casa e non vedere più nessuno, che non si sa mai.



CORRELATI