20 Agosto 2019 6 commenti

The Handmaid’s Tale 3 season finale – Conclusione poderosa di una stagione contrastata di Diego Castelli

The Handmaid’s Tale è cambiata e, che ci piaccia o no, l’ha fatto con coscienza

Copertina, Olimpo, On Air

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SPOILER SU TUTTA LA TERZA STAGIONE

C’è una considerazione sostanziale da fare a proposito della terza stagione di The Handmaid’s Tale, e in particolare del suo finale. Per certi versi, e in soli tre anni, la serie è cambiata moltissimo e non è più quella della prima stagione, proprio in termini di cosa racconta. Da un altro punto di vista, invece, è esattamente la stessa, e il vostro favore o il vostro fastidio sta tutto in cosa ritenevate importante per lo show, e in cosa siete disposti a vederlo cambiare .
E ora, dopo avervi incuriosito tantissimissimo con questo preambolo, vediamo più nel dettaglio.

La prima stagione di The Handmaid’s Tale, che si rifaceva al primo e unico romanzo di Margaret Atwood dedicato alle ancelle, aveva una valore soprattutto filosofico, politico, metaforico. Più che raccontare una storia raccontava un mondo, una distopia tanto più inquietante quanto più riusciva a sembrarci potenzialmente verosimile. Nel raccontarci la versione peggiore del maschilismo e del fondamentalismo religioso, usava sì la forma dell’iperbole, ma solo per sottolineare in maniera vistosa elementi che esistono e pulsano nella società in cui viviamo.
Il risultato era ottimo, quasi perfetto, così forte e impattante da diventare immediatamente fenomeno di costume. Perfino letteralmente, considerando quanta gente, per motivi più o meno frivoli, ha cominciato a vestirsi da ancella pure a carnevale. 

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E qui però arrivava la prima sfida. La serialità televisiva ha tanti pregi e offre tante possibilità, ma mette anche dei paletti: se vuoi scrivere una serie che vada avanti per un numero imprecisato di stagioni, non puoi affidarti solo all’atmosfera o alla metafora, devi avere una storia da raccontare. Tanto più che The Handmaid’s Tale, mettendo in scena le peggiori angherie subite da quella che a tutti gli effetti è una schiava da riproduzione, correva il rischio di ripetersi troppo e abbandonarsi a una sorta di pornografia del dolore che sarebbe stata l’opposto di quanto si prefiggeva in origine.
Da qui, la svolta probabilmente inevitabile: quella di June non può essere solo una storia di sopravvivenza e di descrizione di un mondo terribile e possibile (o terribile in quanto possibile), deve diventare una storia di riscatto.

Questo è il grande cambiamento, la base su cui i fan della prima ora possono storcere il naso: in questi tre anni The Handmaid’s Tale è diventata un po’ meno intimista e più hollywoodiana, meno drammatica e più spy story. Con mille sfumature, mille rallentamenti, e qualche passo falso, ovviamente, ma il succo è quello. Una svolta che ha comportato anche una riscrittura (pericolosa o coraggiosa, vedete voi) di alcune regole del gioco: i rigidissimi controlli a cui le ancelle erano sottoposte nella prima stagione non sarebbero compatibili con quanto visto nella terza, dove ancelle e marthe riescono a portare decine di bambini su un aereo con cui farli fuggire in Canada. Da qualche parte le maglie si sono allargate, i ceppi indeboliti. E non è successo per qualche motivo ben motivato e spiegato, ma solo per esigenze di sceneggiatura.

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Qualcuno ritiene che questo sia motivo sufficiente per prendere le distanze dalla serie. Il che, naturalmente, è legittimo. A mio giudizio, però, senza questi cambiamenti la serie sarebbe semplicemente morta, o sarebbe diventata (come già rischiava di fare) una stanca riproposizione dello stesso identico schema: cattiveria subita da June, dolore e rabbia, monologo edificante, decisione di resistere stoicamente.
Se proprio vogliamo dircela tutta, il cambiamento è arrivato pure troppo lentamente: anche in questa terza stagione, nel corso delle settimane abbiamo sentito qui e là la stanchezza, o quanto meno il tentativo di allungare il brodo per girare intorno a quei due-tre punti fermi che gli autori volevano usare come cardine di questo ciclo di episodi. Se ci pensate, fra il momento in cui June sceglie con attenzione delle “guerriere” in grado di aiutarla (che peraltro poi non si vedono più o quasi), e il momento in cui effettivamente agisce per liberare i bambini, passa un sacco di tempo, e quel tempo è riempito con eventi e riflessioni non sempre originali o pregnanti.

Poi però arriva il finale. E il finale, giusto per essere chiari, è un episodio di rara potenza, che procede come un rullo compressore fregandosene apertamente di molte micro-coerenze per ritornare, pur su temi diversi, a quello che è il nucleo della serie, cioè la trasmissione di emozioni poderose, legate al destino di una donna trovatasi in un mondo assurdo che ha fin troppe somiglianze col nostro. In questo senso, è il momento di citare ciò che di The Handmaid’s Tale non è mai cambiata, e cioè la sua straordinaria forza espressiva. Sono poche le serie attualmente in onda che dedicano così tanta attenzione al loro comparto prettamente visivo, alla composizione delle inquadrature, alla gestione dei colori, alla volontà esplicita e dichiarata di dare a questi elementi uno strato supplementare di significato, con l’obiettivo di stamparsi nella mente degli spettatori con forza quasi pittorica.

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Alla base dell’episodio ci sono le considerazioni iniziali di June, che parla a lungo della necessità della “ruthlessness”, la spietatezza, per raggiungere un qualunque obiettivo in un mondo che, appunto, è spietato e non lascia margini di manovra ai cuori deboli. Tutta la puntata lavora su questo concetto e sul confine assai sfumato fra giustizia e vendetta, su cui June cammina da tempo e che continuamente rischia di superare: la donna vuole salvare i bambini, e questa missione diventa lo strumento con cui dare senso alla sua vita di ancella. Ma proprio questo, il fatto cioè che il compito che si è autoattribuita sia importante soprattutto per lei, rischia di farla sbandare pericolosamente, come quando arriva a puntare una pistola in faccia a una povera ragazzina che invece dovrebbe salvare. La scena è potente perché, al netto del fatto che si tratta di uno sbaglio figlio dello stress, ci fa davvero spaventare: la June degli ultimi tempi, quella che per esempio ha lasciato morire la moglie di Lawrence, sembra effettivamente in grado di una mossa paradossale come uccidere una bambina che le impedisce di salvare… i bambini.

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A riscattare June, allora, deve arrivare l’arma suprema di tutti i veri eroi, cioè il sacrificio: la spietata June, ormai capace di compiere anche il male in nome del bene, sceglie di rinunciare alla sua speranza di salvare la figlia, per permettere agli altri ragazzini di scappare sull’aereo. Poi non muore, certo, e viene portata via dalle amiche con un mezzo sorriso soddisfatto e già in odor di santità, ma in fondo è il pensiero che conta.
Prima e intorno a quel momento, una sbadilata di scene madri che, oltre alla protagonista, tratteggiano ancora meglio il mondo in cui si muove: la sequenza d’apertura, ambientata all’inizio della follia di Gilead, quando le donne passano da persone a bestiame nel giro di una notte; la fuga di marthe, ancelle e bambini verso la salvezza, che ha ricordato senza possibilità di errori tanti film di fuga dal nazismo, fra guardie armate e appostamenti nel buio; la splendida scena di Lawrence che tranquillizza i bambini leggendo L’isola del tesoro, che ha permesso al comandante di guadagnare qualche punto, ma ha soprattutto evocato la forza della narrativa e del ricordo come elemento di unione e consapevolezza, contro la tirannia dell’ignoranza; l’arrivo dei bambini a destinazione, soprattutto la piccola Rebecca (“è questo il posto dove posso vestirmi come mi pare?”), che ha rischiato fino all’ultimo di essere troppo zuccherosa, ma è girata così bene, con i tempi così giusti, e saggiamente stemperata dall’amarezza di Luke, da strappare applausi a scena aperta.

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Abbiamo insomma assistito a una stagione di cambiamento. Cambiamento della serie, dei generi di riferimento, di alcuni temi di fondo, della sua protagonista. E a questo punto non è possibile fermarsi e tornare indietro, perché qui l’unica cosa che si può ancora raccontare è la fine di Gilead, con il consueto rischio di eccessiva retorica, ma anche con la possibilità di lavorare ancora di più sulla simbologia, passando dalla narrazione del regime a quella della sua fine. Potrà non essere più la The Handmaid’s Tale di cui ci eravamo subito innamorati, ma potrebbe essere l’unica ancora possibile, quella che, accanto all’avvertimento sul peggio che può succedere, cerca anche di trovare le strade, prima di tutto etiche e morali, per venirne fuori o (nella nostra realtà extra-seriale) per impedire che accada.

PS Non ho speso neanche una parola per i Waterford, poverini. Ma in fondo se lo meritano. Tiè.



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