The Handmaid’s Tale terza stagione: pregi e contraddizioni di una serie tuttora fondamentale di Diego Castelli
Al suo esordio, la terza stagione di The Handmaid’s Tale fa promesse importanti, ma soprattutto ribadisce un concetto centrale: bisogna guardarla
SPOILER SUI PRIMI TRE EPISODI
Raramente, in questi anni di Serial Minds, ci è capitato di seguire una serie che avesse contemporaneamente gli stessi pregi, gli stessi difetti, e la stessa “necessità” di The Handmaid’s Tale, intesa come capacità di stare dentro al proprio tempo e rendersi quasi indispensabile, al di là delle riflessioni legate alla pura componente spettacolare e di intrattenimento. Il fatto, poi, che questa serie apparentemente così “giusta” per il 2019, sia tratta da un libro di più di trent’anni fa, può fare abbastanza sorridere, appena prima di rammaricarsi del fatto che, evidentemente, la nostra capacità di evoluzione è meno efficiente di quanto pensassimo.
Ma andiamo con ordine. Pochi giorni fa ha debuttato la terza stagione di The Handmaid’s Tale (disponibile in Italia su TimVision), una serie di fortissimo impatto che, paradossalmente, per molti suoi estimatori non sarebbe dovuta andare oltre la prima stagione. Il motivo, molto semplice, è che il romanzo di Margaret Atwood si fermava lì, e qualunque tentativo di proseguire la storia avrebbe rischiato di produrre quel fastidioso effetto sbrodolamento che tante volte abbiamo visto funestare questa o quella serie tv. Quel rischio, diciamocelo pure, si è almeno in parte concretizzato nella seconda stagione, che ha vissuto un’esistenza particolarmente contraddittoria, a più livelli: a larghi tratti resta un ottimo, fortissimo pezzo di televisione, ma è vero che l’allungamento della sceneggiatura ha creato zone di debolezza, di incoerenza, o di ripetitività; ha continuato a essere un punto di riferimento per il femminismo televisivo, ma è vero che ha suscitato anche qualche perplessità, legata al fatto che una serie incentrata sui maltrattamenti alle donne rischia, nel lungo periodo, di crogiolarsi nella propria violenza, ottenendo una specie di pornografia del dolore che avrebbe l’effetto contrario a quello sperato; ha innalzato di brutto i propri ascolti, imponendosi ulteriormente come fenomeno culturale e di costume, ma è vero che proprio quel “costume” (inteso qui letteralmente come la veste e il cappuccio delle ancelle) è stato anche un po’ banalizzato da alcune carnevalate fuori luogo.
Una serie, insomma, che come tutti gli oggetti culturali particolarmente forti e divisivi continua a creare dibattito e opinioni contrastanti, ma che allo stesso tempo resta centrale nel discorso collettivo, non solo televisivo.
Da questo punto di vista, prima di tornare a parlare del contenuto, vale la pena alzare lo sguardo dallo schermo per vedere ciò che abbiamo intorno e, nello specifico, quello che hanno intorno gli statunitensi: se dopo due stagioni qualcuno poteva pensare che The Handmaid’s Tale stesse diventando narrativamente ridondante, guardando al numero di stati americani che legiferano allegramente su ignobili restrizioni del diritto all’aborto, viene da pensare che no, non è ridondante e resta politicamente necessaria, pur nei limiti di quanto possa essere davvero efficace una serie tv (che non va in onda su una tv generalista, peraltro) nel dibattito pubblico. Ma il concetto, chiaro e semplice e mai cambiato dalla prima stagione, è che The Handmaid’s Tale racconta di un possibile futuro immaginato nel 1985, ma che per certi versi spaventa oggi come allora.
Tornando allo specifico della serie, poi, la terza stagione promette di essere quella dello scarto. La prima aveva settato un certo mood, costruito un mondo terrificante in cui la protagonista June era una specie di banderuola scossa dalla tempesta, che cercava semplicemente di sopravvivere in un modo di merda (per dirla un po’ semplice). Il principale problema della seconda stagione stava nel fatto che non si spostava più di tanto dalla prima, prevedendo più o meno gli stessi personaggi e più o meno le stesse dinamiche: June presa a pesci in faccia, monologo motivazionale, fuga, cattura, pesci in faccia, monologo/graffiti nell’armadio, fuga, ecc ecc.
E certamente sto banalizzando, perché in quella rischiosa ricorsività c’erano anche momenti di straordinaria forza visiva, che hanno comunque condotto a un finale di stagione molto solido, in cui June prende una decisione fino a quel momento improbabile (rimanere volontariamente a Gilead, mentre la piccola Nichole fuggiva fra le braccia di Emily). Una decisione presa in nome della figlia più grande rimasta indietro ma, nemmeno troppo fra le righe, anche in nome di una volontà di riscatto, di ribellione, e perché no di vendetta.
Il vero errore sarebbe stato quello di non dare seguito a questi indizi, rischiando per questo un’altra stagione troppo “stabile”, ma non pare questo il caso.
I primi tre episodi della terza stagione accelerano vistosamente verso una direzione specifica, che molti speravano di vedere già l’anno scorso: l’arruolamento di June fra le fila del movimento di ribellione noto come Mayday, quello per intenderci che aveva organizzato l’attacco suicida che aveva ammazzato un sacco di Comandanti.
La trama di questi tre episodi, al suo nocciolo più stringato, vede June prendere coscienza delle reali pedine in gioco, per poi decidere di fare un passo decisivo (e pure piuttosto figo) verso l’ingresso nella ribellione: spinta da Lawrence a scegliere solo cinque donne da salvare fra quelle condannate a morte certa, June prima rifiuta categoricamente di partecipare a quel gioco sadico (e questa è un po’ la “vecchia June”), salvo poi accettare quello che non può cambiare, tirandone fuori il meglio, e scegliendo cioè cinque donne che, per curriculum, sapranno aiutare la ribellione in modi tutti da definire (e questa è la “nuova June”).
A interessarci, di questo processo, non è tanto il punto finale, che comunque ci rassicura sul fatto che questa stagione sarà sufficientemente diversa dalla precedente, quanto il percorso e le persone coinvolte per arrivare fin lì. In particolare, a fare da contraltare a un certo depotenziamento narrativo di Waterford (che ha un po’ esaurito la sua funzione), è arrivata la figura di Joseph Lawrence, personaggio mooolto interessante interpretato dal nostro amatissimo Bradley Whitford (che adoriamo dai tempi di The West Wing). Nella scorsa stagione Lawrence, che sappiamo essere un matematico/economista fra i principali responsabili della distopia di Gilead, ci era apparso come un ex cattivo pentito, o magari un buono puro che semplicemente, col suo lavoro onesto, aveva contributo a creare una cosa orrenda (un po’ come si potrebbe pensare di Einstein e la bomba atomica, per dire).
Questa terza stagione, invece, ci presenta un personaggio molto più sfaccettato e potenzialmente inquietante. È vero che lascia passare molte attività illegali pro-donne sotto il suo naso, ed è vero che ha aiutato Emily a fuggire. Ma è altrettanto vero che è capace di sottili malignità, di sbruffonaggine tipicamente maschile, e che il suo rapporto con June è tutt’altro che semplicemente amichevole, come se Lawrence avesse sì in mente di favorire la ribellione, ma fosse infastidito da tutto ciò che esce dal suo diretto controllo. In questo un personaggio che incarna bene un altro tipo di maschio “sbagliato”, e per certi versi più subdolo: quello che è davvero convinto di fare del bene, ma che concepisce se stesso solo come padre benevolo alla cui guida bisogna comunque affidarsi.
I tre episodi raccontano poi altri dettagli importanti, e lo fanno bene: il rapporto di Serena con la madre, che in pochi tratti ci dice molto del posto buio e poco confortevole da cui possono essere emerse le folli idee che hanno portato Serena a essere una delle ideologhe di Gilead; oppure la vicenda di Emily, che raggiunto il Canada si trova inserita in un contesto di sorprendente “normalità” dove (dettaglio azzeccatissimo) il suo unico, vero problema del momento diventa il colesterolo un po’ troppo alto, e non il rischio di essere stuprata o uccisa appena si distrae.
Allo stesso tempo, l’accelerazione verso la suicide squad voluta da June si porta dietro anche alcune forzature e incoerenze rispetto al passato: basterebbe citare, una per tutte, la facilità con cui June, coinvolta in molteplici fughe e cospirazioni, finisce di nuovo a fare l’ancella come se niente fosse. Diciamoci la verità: se riguardiamo i primissimi episodi della serie e il livello di oppressione patito dalle ancelle, questa June così litigiosa/complice con i Waterford, aggressiva con Lawrence, e in generale sopravvissuta a così tante fughe e ricatture senza che nessuno decida semplicemente di impiccarla e basta, fa un po’ sorridere, come se lei potesse in ogni momento tirare fuori la sceneggiatura e dire “fermi tutti, non mi potete ammazzare, sono la protagonista e questa non è Game of Thrones”.
Al netto di sbavature piccole e grandi, però, The Handmaid’s Tale non ha smesso di essere un must see: sembra aver schivato il pericolo più grande, cioè quello di “rifare” ancora una volta la prima stagione, e in compenso continua a offrirci un mondo pesante, duro, inquietante, e costantemente ben messo in scena, pieno di immagini che si stampano nel cervello (Serena e la casa in fiamme), scene di abile perversione (il balletto di sguardi e ordini fra June e Lawrence in presenza degli altri Comandanti), riflessioni politicamente rilevanti, e ovviamente lo sguardo intensissimo di Elizabeth Moss, che continua a suggerirci dolci incubi notturni.
A fine stagione vedremo se le promesse saranno state mantenute. Intanto, però, non molliamo di un centimetro.