The L Word di Chiara Minetti
Una serie rivoluzionaria
The L Word è una serie americana prodotta da Showtime e andata in onda per la prima volta negli USA nel 2004. Un anno dopo, La7, decide di acquistarla per l’Italia e la trasmette alle 23, continuando a programmarla negli anni fino alla quinta stagione. Qualcuno l’ha vista e qualcun altro, diciamo la maggior parte delle persone che conosco (appassionate di serie tv), no.
Anita Sarkeesian è una critica femminista di cultura pop mediale ideatrice di Feminist Frequency, una web serie che affronta con esempi molto chiari l’immagine che i media danno della donna. In uno dei suoi episodi, la Sarkeesian, cita film e serie tv (tra cui Lost) in cui viene mostrato almeno un personaggio femminile il cui unico scopo è quello di far progredire le storyline di un protagonista maschile. Difatti, nel momento in cui non servono più – perché hanno smesso la loro funzione nei confronti del personaggio di cui sono costola – muoiono.
Ilene Chaiken, donna, americana, lesbica dichiarata, sposata, divorziata con due figli, nel 2004 (forse prima) ha l’idea di creare una serie, ambientata a Los Angeles, dove i personaggi principali sono tutte donne e tutte protagoniste. Diciamo un Sex and the City un po’ meno glamour – e non così brandizzato – con una differenza sostanziale. Lo scarto essenziale non risiede nel fatto che le donne rappresentate in The L Word siano tutte, o quasi, lesbiche, ma che la loro immagine, per la prima volta, non è più standardizzata sullo stereotipo maschile della femmina frivola e spesso superficiale. La serie mette in scena altri stereotipi, almeno nei primi dodici episodi, funzionali a identificare delle tipologie di donne gay facilmente riconoscibili, per poi prendersi altre 5 stagioni per approfondirli.
Questi modelli, che nelle serie sono spesso usati solo per caratterizzare il personaggio omosessuale di turno, in The L Word diventano fondanti. Abbiamo la bellezza androgina che non si lega a nessuna, la coppia che vuole fare un figlio, la bisessuale cinica e autoironica, la sportiva obbligata a nascondere la propria sessualità, la bellissima e affascinante italoamericana fedifraga, e il nostro iniziale punto di vista: una giovane scrittrice in piena crisi creativa, appena trasferitasi a Los Angeles per sposare il suo compagno. Tempo cinque minuti e West Hollywood diventa per lei, e per milioni di spettatori in tutto il mondo, lo specchio di una realtà sconosciuta, quella di una minoranza che aveva bisogno di sentirsi rappresentata e che si immedesima alla perfezione nelle protagoniste di The L Word per una semplice ragione: è davvero così.
Ilene Chaiken ha fatto una cosa mai vista. Ha rappresentato con un prodotto non più destinato solamente al circuito della cultura gay, un universo “altro” e semi sconosciuto ai più, fornendo stagione dopo stagione tutti gli strumenti per comprenderlo in ogni suo aspetto. Anche, e soprattutto, sul piano del sesso. Ha svolto una funzione socio-culturale, da Servizio Pubblico, se così si può dire. In qualche modo è stato liberatorio, per molte donne e uomini etero o gay, nonché per molti transessuali, anch’essi rappresentati, vedere e sentir parlare del sesso fra donne per com’è davvero.
Una delle protagoniste ha una lavagna dalle dimensioni imbarazzanti in cui ha collegato tutte le lesbiche che conosce, convinta che in un modo nell’altro se non hanno ancora fatto tutte sesso fra di loro ci manca poco. Quanto è vero…
Per quanto mi riguarda The L Word è da inserirsi nella categoria “olimpo” delle serie da non perdere. Se non per il modo in cui è costruita – comunque ottimamente – almeno per capire nella pratica ciò che Anita Sarkeesian creda debba essere fatto un po’ più spesso.